Simboli fantastici (19): Il cornetto di Antonia, sindaco de Roma – Gabriele Maestri


I Simboli della discordia, di Gabriele Maestri
13 settembre 2016

Articolo originale

 


 

Sulla scheda elettorale per le amministrative a Roma, dopo i terremoti continui delle settimane che hanno preceduto il voto, sono arrivati 13 candidati. Eppure, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, qualcuno deve avere seriamente pensato che sarebbero stati 14, o almeno così gli sarebbe piaciuto che fosse per sorridere un po’, in una marcia di avvicinamento al voto che di allegro ha avuto ben poco. A stemperare la tensione aveva provveduto proprio un sorriso, quello generoso di Antonia Colasante: era lei la possibile nuova prima cittadina della Capitale, per finta sì, ma preparata assolutamente sul serio, per divertirsi un po’ e verificare alcune cose “sul campo”.   

Il suggello all’operazione l’ha fornito l’Ansa: il 3 giugno ha battuto un lancio che, se svelava che non c’era nessun* aspirante sindac* in più, dimenticat* dai media sino a quel giorno, in realtà faceva conoscere quell’esperienza fake anche a chi non l’aveva incrociata più o meno per caso sui social network, credendo o sperando che la paladina del cornetto puntasse davvero al Campidoglio. Il sito della candidata – www.votantonia.it, ammiccante anche per chi aveva poca familiarità con Totò – e la pagina Facebook che doveva servire a diffondere verbo, idee e progetti della candidata (assieme all’account di Twitter) sono online dal 15 maggio 2015: in quel giorno i naviganti erano informati dell’esistenza di una “Lista Civica Antonia Colasante Sindaco de Roma”, il cui ufficio di presidenza aveva invitato la leader a candidarsi. “Lei – continuava la nota – si è presa 24 ore di tempo per pensarci e consultarsi con gli alleati ma è quasi certo, salvo ripensamenti dell’ultima ora, che lunedì 16 maggio a metà giornata verrà annunciata la sua candidatura con un conferenza stampa ufficiale”. Lo scherzo era chiaro, il termine per presentare le candidature era scaduto il 7 maggio: il tutto però aveva, se non altro, l’apparenza del plausibile e del ben curato.
Di questo, peraltro, non c’è da stupirsi. Le demiurghe della campagna, ossia la stessa Colasante e Valentina Cinelli, sono due “consulenti di comunicazione”, come loro si sono qualificate nel sito: sanno come muoversi nel mondo dei social media e dello storytelling e – cosa più importante – hanno dimostrato di non prendersi troppo serio e di praticare l’ironia. Così, “una mattina un po’ più pigra, e forse per questo più creativa, di metà maggio” (parole di Colasante, nel racconto-analisi ex post dell’esperienza) è nata l’idea della finta campagna elettorale, non per offendere qualcuno – era ben precisato anche nel sito, forse per scoraggiare qualche mente dalla querela facile – ma per divertirsi e alleggerire il clima, sempre con gli occhi attenti per vedere (e non di nascosto) l’effetto che fa. L’idea di base è che, “nella generale inerzia di pensiero”, attiri l’attenzione “quello che fa ridere, quello che esteticamente convince, quello che non va analizzato per essere compreso, ma basta prenderlo così com’è”. L’importante è comunicare e farlo bene, a prescindere dal livello del contenuto e anche se lo si fa per gioco.

Perché di gioco, davvero, si è trattato. Non è un caso che Colasante – esperta, tra l’altro, di metodo Lego Serious Play, che nelle aziende usa le costruzioni di mattoncini per fare squadra, elaborare e spiegare strategie, tentare di risolvere problemi – parli di gamification e di roleplaying: il ruolo da giocare era quello di chi si candida a sindac* e lei ha prestato il suo volto e il suo sorriso, ma in fondo il gioco ha coinvolto tutti coloro che hanno incrociato la candidata. Ognuno, infatti, ha potuto identificarsi in una nuova posizione o nell’ultima esternazione sulla Capitale, commentando, diffondendo e magari addirittura contribuendo alle nuove uscite della candidata, su temi seri – come la diatriba sulle Olimpiadi del 2024 – o meno probabili (per gli altri suoi concorrenti “veri”, si capisce).

Certo, il gioco in questo caso sembra essersi complicato via via: “In principio – mi spiegano Colasante e Cinelli – non era programmato un progetto così articolato, c’era l’idea di fare una narrazione alternativa, ma non i dettagli definiti (logo, piano editoriale, etc) che sono venuti piano piano”. Evidentemente devono averci preso gusto: l’esperienza non è stata una passeggiata (si parla sempre di professioniste) ma, essendo ludica, è venuta più facilmente. “Per noi – continuano – è stato un lavoro serio ma semplice, perché è il nostro lavoro creare contenuti seguendo una strategia e costruire contenitori per veicolare il tutto. Ci bastava fare l’analisi della concorrenza (gli altri candidati) ed estrapolare quali erano le reali esigenze dell’elettorato/target (nella fattispecie pensando a cosa noi avremo desiderato dalla comunicazione di un candidato)”.

Oltre che un volto, serviva un programma elettorale diviso per temi: Abitazioni e territorio; Cultura ed enogastronomia; Occupazione, innovazione e pari opportunità, Mobilità e trasporti; Sanità e servizi. E se nel primo punto, pur stabilendo dall’inizio il tono della boutade, si è cercato di mantenere un’impostazione seria, con slogan formulati da vero programma elettorale (Risolvere il problema abitativo di Roma con i Lego: una confezione a famiglia per costruirsi la casa dei sogni; Distribuzione territoriale: corsi avanzati di formazione di Risiko e ognuno sarà libero di invadere il quartiere confinante), dal secondo in avanti è scattata l’ora del cazzeggio totale, in funzione liberatoria, ma anche per una presa d’atto – amara – del livello generale delle narrazioni politiche e delle attese degli elettori.

“Lo stato attuale dello storytelling politico, dalla Brexit e affini, fino alla realtà locale romana di una campagna elettorale surreale e grottesca – ha spiegato Colasante a campagna terminata – ha […] determinato l’amara constatazione sulle aspettative basse e gli atteggiamenti sfiduciati delle persone”. Così, affermazioni come “Nella parmigiana la melanzana deve essere indorata e fritta” (meglio indorare melanzane che pillole…) o aforismi quali “I labirinti delle pippe mentali hanno sentieri scivolosi che non conducono in nessun dove” (sante parole!) e “Non è la destinazione, ma il viaggio che conta. Certo un treno in orario pure non farebbe schifo” (ma anche un autobus, vero Atac?) possono diventare “una speranza, anche surreale, per affrontare le vicende quotidiane”, alternativa efficace a qualunque “favola poco credibile che ha già deluso in passato”.

Per “vincere le elezioni” con il sorriso e l’ironia, Colasante e Cinelli hanno attinto a piene mani dalle campagne dei principali altri candidati, parodiandone lo stile grafico, testuale e narrativo: nessuno tra Raggi, Giachetti, Meloni, Fassina è stato risparmiato. In tutto questo, però, un contrassegno vero e proprio – con i crismi di legge, delimitato da un cerchio di 3 e 10 centimetri di diametro – non era stato prodotto. E in un primo tempo, a dire il vero, non c’era nemmeno un simbolo, nel senso di un’immagine ricorrente in cui riassumere il mondo di Antonia Colasante: “Inizialmente – ammettono le due esperte di comunicazione – ci eravamo concentrate a replicare il format grafico dei vari candidati, enfatizzandone alcune caratteristiche (la ‘patinatura’ della Meloni, il gioco di parole ‘Roma torna Roma’ di Giachetti) senza pensare a un simbolo. Solo successivamente abbiamo pensato a un elemento che creasse una continuità visiva fra le varie declinazioni della campagna”.

A quel punto, la scelta è caduta sul cornetto, che solo i nordici chiamano brioche e gli internazionalisti si ostinano a chiamare croissant. Nel sito Votantonia campeggia un po’ in tutti i contesti (e, a quanto è dato sapere, il ripieno è rigorosamente alla crema): il sospetto che il dolce sia particolarmente gradito a qualcuna delle ideatrici è solo una bieca insinuazione, ciò che conta è che il cornetto buca lo schermo e riempie lo stomaco, quindi si è imposto su ogni altro segno. “Il cornetto – mi spiegano ancora Colasante e Cinelli – era nato in relazione alla campagna con il cuore di Alfio Marchini: data la semplicità del segno, e l’ironia legata al prodotto alimentare, è stato assunto come simbolo ufficiale e leitmotiv della campagna”. In principio, dunque, fu la Marchinization del croissant, riempito con la mappa a fondo rosso che sulla scheda caratterizzava il cuore del candidato imprenditore; in seguito il cornetto si è visto un po’ dappertutto, anche nella personalizzazione della campagna “Rome & You” (diventata, immancabilmente, “Anto & You”), che tanto aveva fatto discutere nei mesi precedenti. E sempre nel segno del cornetto si è chiusa, con il rituale rinfresco – autofinanziato con il crowdfunding – la campagna elettorale di Votantonia.
Dopo essersi quasi scannati in campagna elettorale, duole lo stomaco a pensare che nei prossimi mesi prenda corpo il rischio – nemmeno troppo astratto – di doversi preparare a tornare alle urne, con il carico di accuse e veleni reciproci già visti. Se proprio non si riesce a crescere e a migliorarsi (come classe politica ed elettorale), tanto vale curarsi con la leggerezza del gioco serio e il gusto della sfoglia e di un ripieno ben fatti. “Meglio il cornetto, che una finta promessa senza sostanza, proprio come la leggendaria fetta di mortadella nella scheda elettorale – conclude Colasante nel suo post di analisi -. Al sapore del déjà vu, quindi, si è contrapposta la nostra crema, farcitura di una simbolica e nostalgica speranza per una Roma migliore”. Una conclusione che mi rimanda a un detto sempre valido delle mie parti: ai vecchi che sentenziavano in dialetto emiliano che “piuttosto che niente, è meglio ‘piuttosto'”, i giovani pragmatici e affamati replicavano che “Pötòst che gnìnt, l’è mei… un toast“, ma sicuramente un croissant è ancora meglio. Tenendo sempre a mente che, com’è scritto nel programma, “Un cornetto vale uno. Ma se è alla crema il conto delle calorie aumenta”. Purtroppo.